Cosa succede sui Mercati – 30 Settembre 2019

Felix Schlesinger (1833-1910): UNA MANO D’AIUTO. Nel suo ultimo discorso di fronte all’Europarlamento Draghi ha criticato, con forza, i membri dell’euro che hanno un attivo di bilancia commerciale chiedendo loro di aiutare l’economia globale con politiche fiscali espansive.

Dal punto di vista geopolitico i rischi aumentano e sono ben quattro le situazioni che potrebbero determinare un brusco calo dei mercati. Sul fronte economico le mosse delle autorità monetarie sembrano aver prodotto effetti positivi per quanto si stiano moltiplicando gli appelli alle autorità fiscali perché facciano la loro parte. Gli USA hanno fronti aperti verso la Cina, per le tariffe, e nei confronti dell’Iran ritenuto responsabile dell’attacco agli impianti petroliferi di Riyad. La Brexit resta un rischio calcolato, probabilmente male, dal nuovo governo. In Argentina le elezioni del prossimo mese porteranno un presidente assolutamente inviso ai mercati. Gli ultimi dati economici statunitensi sono positivi grazie alla FED.

Possiamo dire che Draghi abbia cercato di prendere di petto Berlino, il cui surplus commerciale è dell’8% ben superiore, da anni, alle regole europee, le quali parlano anche di surplus eccessivi e non solo di deficit!

Una politica fiscale espansiva da parte di Berlino, oltre a permettere di fare investimenti pubblici (l’Economist ha scritto che l’11% dei ponti tedeschi è in pessime condizioni e che il sistema ferroviario soffre di ritardi diffusi), consentirebbe di aumentare l’export e, quindi, il PIL degli altri partner europei. Naturalmente l’invito a spendere è rivolto anche ad altri governi, non invece a quello italiano che, come noto, ha già troppi debiti, ma le possibilità che questo invito venga accolto nell’immediato non sono alte. Berlino rimarrà probabilmente attaccata alla propria politica anche perché cambiarla richiederebbe un pesante intervento legislativo.

Pechino durante la crisi del 2007-2008 ha evitato scenari peggiori grazie a massicci investimenti e negli ultimi mesi ha portato avanti diverse misure di stimolo, ma difficilmente andrà oltre perché teme gli effetti collaterali di quanto ha fatto nel 2008: aumento del debito, che complessivamente in Cina è pari al triplo del PIL, dell’inflazione e dei prezzi degli immobili.

Cosa farà Washington è ovviamente legato alle prossime presidenziali e a quello che i vari candidati pensano circa l’opportunità di ulteriori stimoli dopo i recenti tagli fiscali che, secondo il Congressional Budget Office, hanno aumentato il Pil del 2018 dello 0,3%.

Per ora rimane lo stimolo monetario portato avanti da tutte le banche centrali anche se con efficacia decrescente, per quanto il grafico accanto mostri come i recenti tagli della FED abbiano sostenuto l’economia statunitense. La politica fiscale potrebbe essere, comunque considerata una sorta di ruota di scorta se le condizioni geopolitiche dovessero peggiorare. La chiave di volta potrebbe essere la solita, che è entrata anche indirettamente nella propaganda di Johnson sulla Brexit, scorporare le spese per investimenti dal patto di stabilità. A Londra si parla, già da tempo per la verità, di questione settentrionale: della necessità di fare investimenti per creare anche a Nord un’area economica avanzata come quella che esiste intorno a Londra.

Ovviamente la voce di Draghi non è la sola a chiedere una mano d’aiuto da parte delle politiche fiscali. Il capo economista di Pimco ricorda come la crescita europea sia ormai in stallo, come la Germania abbia dei problemi e si augura che la Lagarde possa convincere i governi in grado di farlo a spendere.

Venendo ora ad una rapida analisi delle questioni geopolitiche aperte cominciamo col dire che sono quattro, eccole in ordine alfabetico: Argentina, Brexit, Cina ed Iran. Le ultime due vengono considerate, come dire, in ragione dei loro rapporti con gli USA.

L ’Argentina ha appena avuto il più grande prestito concesso dal FMI pari a 56 mld di dollari. L’attuale presidente non è riuscito a sfruttare un momento favorevole che aveva avuto all’inizio del mandato; tutti i sondaggi lo vedono largamente perdente alle elezioni di fine di ottobre a vantaggio di un candidato peronista che avrebbe come vice Cristina Kirchner, presidente dal 2007 al 2015 e sotto processo per corruzione in relazione ad episodi che sarebbero successi durante il suo mandato e durante quello del marito che l’ha preceduta. Quando, ad agosto, per via del particolare sistema elettorale, la sconfitta di Macri ha cominciato ad essere scontata i CDS (Credit Default Swap, una sorta di termometro finanziario di un paese) sull’Argentina hanno raggiunto quotazioni che rispecchiavano l’80% di probabilità di default. Il rischio per i mercati globali è che una crisi valutaria in Argentina ed un default si ripercuotano su quelli emergenti. Ovviamente il tutto è oggetto di una trattativa ed il Fondo darà certamente al nuovo governo il tempo di insediarsi. Da una parte deve ancora erogare l’ultima tranche senza la quale Buenos Aires avrebbe problemi seri, dall’altra il default di un grande debitore, come si sa, è un problema anche per il creditore.

Passiamo ora a Londra dove Boris è stato costretto a ripresentarsi in parlamento dai tribunali, ma non sembrerebbe aver cambiato la sua strategia di fondo. La questione della Brexit sarà probabilmente risolta con nuove elezioni da tenersi dopo l’attuale data prevista per la Brexit che il primo ministro dovrà rassegnarsi a prorogare. Il problema è che non è affatto scontato che Johnson le perda. Il p artito laborista continua a non prendere una posizione fermamente contraria alla Brexit nonostante abbia ammorbidito quella iniziale. Le conseguenze di un’uscita senza accordo sarebbero senza dubbio serie, anche per l’Europa per quanto Londra soffrirebbe di più.

Veniamo alla Cina. L’ultimo dato sulla crescita della produzione industriale risulta essere il più debole dal 2002 (+4,4%!). Un insieme di problemi ha colpito Pechino: oltre i dazi ha dovuto fronteggiare la pesta suina e la crisi internazionale. Il contrasto con Washington non è ancora risolto e risulta sempre difficile capire le intenzioni di Trump. L’ultima mossa è stata la conclusione di un accordo con Tokyo. Un accordo in realtà parziale che coinvolge i prodotti agricoli statunitensi, che potranno essere più esportati in Giappone, contro alcune tariffe su beni industriali che Washington non applicherà. Un accordo che risarcisce parzialmente gli agricoltori statunitensi, come sappiamo grandi elettori dell’attuale inquilino della Casa Bianca, danneggiati dalla reazione cinese alle tariffe e dagli accordi che il Giappone ha fatto con l’Europa. Accordi che Trump avrebbe voluto “superare” ma non c’è riuscito: mentre Giappone ed Europa hanno parlato anche di auto, Trump non ha ottenuto di coinvolgere nell’accordo il settore automobilistico. Tokyo ha, comunque evitato il super dazio del 25% sulle auto minacciato da Trump.

Secondo i pessimisti l’accordo tra USA e Giappone contiene un ulteriore elemento di pericolo per la tenuta dell’attuale sistema di commercio multilaterale: non prevede il rispetto della clausola della nazione più favorita.

Un altro paese con cui Trump sta mantenendo un atteggiamento duro è l’Iran. Teheran recentemente è stata accusata di a ver portato avanti l’attacco contro uno dei più grandi impianti petroliferi al mondo che ovviamente si trova in Arabia Saudita, paese contro cui l’Iran combatte una guerra per procura in Yemen. Gli impianti servono per separare acqua e zolfo dal petrolio.

La produzione giornaliera del petrolio è scesa di 5 milioni di barili seppur per poche settimane, le conseguenze sul prezzo sono state di fatto modeste ancora una volta grazie al fatto che gli USA ormai sono passati da una produzione giornaliera di 5 milioni ad una di 12. Va anche detto che il petrolio dell’Arabia saudita va principalmente in Asia. L’attacco probabilmente è stato portato avanti da frange estreme, in qualche misura fuori controllo, che cercano di reagire alle forti sanzioni imposte dagli USA.

La situazione potrebbe senz’altro degenerare e portare ad un duraturo rialzo dei prezzi, ma va anche detto che esistono elementi che potrebbero calmierare la situazione.

Da una parte il regime di Riyad sta cercando di diventare più liberale anche grazie alla prossima quotazione di Aramco (compagnia nazionale saudita di idrocarburi), che si annuncia come la più grande emissione azionaria finora vista sui mercati, nonostante riguardi soltanto il 5% del capitale e che coinvolgerà anche ricche famiglie saudite.

Dall’altra l’Iran sta per aderire all’unione euroasiatica e, quindi, subirà di meno la pressione delle sanzioni.

Volendo concludere con alcune riflessioni di asset allocation possiamo dire che il mercato azionario rimane quello favorito grazie alla politica monetaria e alla prospettiva che, in caso di necessità, possa intervenire finalmente anche quella fiscale. Questa, ad esempio è la posizione di Merrill Lynch. Morgan Stanley riconosce la notevole resistenza del mercato azionario statunitense, ma propone alcune riflessioni. Mostra preoccupazioni sulla tenuta del quadro politico in Medio Oriente dove, va detto, la tenuta della monarchia è sempre stata considerata in qualche misura a rischio. Ricorda che nell’ultima riunione della FED non c’è stata unanimità nella decisione di abbassare i tassi e rammenta anche del problema che c’è stato sull’interbancario statunitense che ha costretto le autorità monetarie ad iniezioni di liquidità.

Problema che è stato attribuito a motivazioni tecniche quali il pagamento delle tasse ed il collocamento di un gran quantitativo di titoli da parte del Tesoro. Vero, si risponde, ma si trattava di tecnicismi non prevedibili… !?

Ubs, riferendosi al mercato obbligazionario, presenta due possibili scenari: ritorno al passato e discesa lungo il buco del coniglio (si tratta di un’espressione idiomatica inglese!). Il primo parla di un arresto delle tensioni sul commercio internazionale e, quindi, di un ritorno, come dire, al multilateralismo pieno. In questo caso potrebbero rientrare alcuni rendimenti negativi o vvero calare le quotazioni obbligazionarie. Il secondo parla di un successo delle agende dei leader populisti, di un aumento delle quotazioni petrolifere e di un mondo di accordi commerciali bilaterali. In questo caso i beni rifugio, a cominciare dalle obbligazioni decennali emesse da Washington, verrebbero acquistati a man bassa. Morgan Stanley ricorda anche, considerandolo un elemento anomalo, la recente volatilità del rendimento di questi titoli. Al momento rendono il 2,1%, dal primo settembre hanno reso l’1,4% per poi oscillare diverse volte.

G.G e M.R.

Questo articolo si basa su dati di pubblico dominio ritenuti attendibili, ma suscettibili di modifiche improvvise. Intende proporsi come ausilio alla comprensione dei movimenti dei mercati finanziari. Non vuole essere in alcun modo uno strumento di analisi o uno studio, né intende sollecitare qualsiasi operazione di compravendita di prodotti finanziari. Si ricorda che ogni risparmiatore deve basare le sue decisioni d’investimento su una propria convinzione. Questo Blog si limita a presentare una sintesi delle opinioni diffuse sui mercati finanziari.

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