Cosa Succede sui Mercati – 29 Novembre 2018

Edwin Thomas Roberts (1840-1917): GOVERNANDO IL BRITANNIA. Sulla Brexit, uno dei tre elementi che più preoccupano i mercati è che si è trovato, forse, un accordo.

Le altre due aree di possibili crisi che i mercati seguono sono legate alle tensioni commerciali tra Pechino e Washington e alla manovra finanziaria che Roma intende portare avanti nonostante le critiche di tutti i partner europei. Il mercato azionario statunitense, seppur reduce da quasi 10 anni di rialzi, potrebbe aver davanti a se ancora parecchi mesi prima di invertire la tendenza.

Theresa May ha raggiunto con l’Europa un accordo che dovrà essere sottoposto, pare intorno al 10 dicembre, a Westminster e non è detto che venga approvato. La soluzione immaginata è basata sul mantenimento dell’attuale situazione in Irlanda dove non si vuole ricostruire il confine.

La May dovrà, comunque convincere i suoi deputati e pare che, al momento, ne manchino circa 80 all’appello. Quelli da seguire con maggiore attenzione sono i conservatori scozzesi, i seguaci dell’ex ministro degli esteri Boris Johnson ed in particolare un’area moderata dei laburisti insofferente verso il leader. I laburisti possono appoggiare la May per cambiare leader oppure imporre un secondo referendum (per il quale, tra l’altro, appare problematico anche scrivere la domanda). L’accordo non ha una vera e propria data di uscita dall’UE; il tutto, come già detto, è legato alla questione irlandese ed in particolare agli accordi del venerdì santo, presi nel 1998 e per cui Londra è garante, che impediscono la creazione di un confine. Dopo l’uscita dovranno essere negoziati gli accordi futuri di collaborazione tra Londra ed Unione Europea. Dal marzo del 2019 al dicembre del 2020, con possibile proroga, si distribuiranno i costi. Se l’accordo fosse respinto si aprirebbe uno scenario nuovo con l’incertezza che potrebbe farla da padrona sui mercati… Tecnicamente dopo un’eventuale bocciatura il governo ha 21 giorni per annunciare le sue mosse. I fautori della Brexit contestano l’accordo perché Londra rimarrebbe per molti aspetti legata all’Europa perdendo, però il potere di influire sulle decisioni dell’Unione. Secondo qualche osservatore le condizioni che Cameron aveva ottenuto nel febbraio del 2016 per rimanere sarebbero migliori di quelle trattate ora dalla May. Cameron aveva ottenuto di non versare alcun contributo per eventuali salvataggi, avrebbe potuto fermare l’immigrazione dimostrando di avere problemi nei conti della previdenza sociale. Avrebbe tenuto quei parlamentari e quel commissario che avevano consentito a Londra di decidere praticamente tutta la legislazione finanziaria.

 Venendo ai rapporti commerciali tra USA e Cina la prossima tappa girerà intorno al G20 che sta per tenersi in Argentina. Lo scopo dell’amministrazione Trump sembra essere quello di ridurre i trasferimenti di tecnologia e ridurre l’integrazione della catena del valore cinese con quella statunitense: separare i due sistemi economici per quanto possibile. In questa direzione andrebbero le richiesta alla Apple di spostare in USA gli stabilimenti. Un processo che, se davvero dovesse essere portato avanti in base alla teoria secondo cui gli USA devono produrre il loro acciaio in casa, potrebbe portare ad un aumento dei prezzi. L’idea dei consiglieri di Trump è che questo potrebbe avvenire ma solo per pochi mesi: altri economisti sconsigliano di svegliare il demone dell’inflazione. In realtà gli scambi commerciali tra Cina ed USA non sono enormi, ma l’impatto delle politiche di Trump potrebbe arrivare da altri fronti. Fino a questo momento considerando i numeri l’impatto delle tensioni commerciali può dirsi modesto: coinvolge solo il 4% del commercio mondiale e ciò sostanzialmente grazie al fatto che l’economia cinese conta sull’export solo per il 15% del PIL. Anni fa Pechino puntava sulle esportazioni, poi sulle infrastrutture mentre ora sui consumi interni. Gli USA importano oltre 500 miliardi, Pechino poco più di 150. Le sanzioni USA sono attive su importazioni per 250 mld, con tariffe pari al 10% che potrebbero salire al 25% dal primo gennaio, mentre quelle cinesi sono ferme su 60 miliardi. Indirettamente, però possono esserci conseguenze per le imprese statunitensi presenti in Cina con un fatturato di quasi 600 miliardi pari a 5 volte quello delle imprese di Pechino che operano in USA. Come esempio si cita il blocco della prevista fusione tra Qualcomm e NXP due aziende produttrici di semiconduttori, americana la prima, olandese la seconda. Il nuovo gruppo avrebbe avuto una quota di mercato in Cina che è stata giudicata eccessiva dopo esser stata approvata da 8 autorità antitrust di altri paesi. L’acquisizione sarebbe costata 44 miliardi e Qualcomm ha dovuto pagare alla società olandese una penale di due miliardi.

Da ricordare anche gli acquisti di titoli di Stato emessi da Washington. Fidelity, una delle più importanti case d’investimento, calcola che nel 2008, quando la crisi causò una vendita di titoli per 200 miliardi, ci fu un aumento di 100 punti base nel rendimento e che ora il comportamento cinese sia responsabile, tramite la vendita di 36 miliardi di titoli, per un aumento di 40 punti (lo 0,4%) in un contesto in cui la politiche fiscali di Trump porteranno il Tesoro ad avere un debito crescente. Infine da quando è iniziata la crisi la Cina ha svalutato la propria divisa di quasi il 10% cosa che ha causato problemi a moti paesi emergenti colpiti dalla forza del dollaro o meglio dalla debolezza della valuta cinese.

Il confronto tra Italia ed UE è in pieno svolgimento, per quanto ci sia stato negli ultimi giorni un leggero calo dello spread. Il problema italiano rimane quello del collocamento dei titoli di Stato soprattutto nei primi mesi del prossimo anno. La BCE ha assorbito il 40% delle emissioni italiane nel 2017, il 24% nel 2018 e potrà comprare meno del 10% nel 2019. La percentuale degli acquisti consentiti dal QE è legata al capital key: la quota che ciascuna banca centrale detiene del capitale della BCE legata ad andamento di PIL e popolazione ed aggiornata ogni 5 anni. L’Italia è terza, un dato interessante, che ci dice anche che Francoforte ha comprato meno titoli di Spagna e Portogallo il cui spread, nonostante il minore aiuto, è ben più contenuto del nostro. A sostituire la BCE dovranno essere gli italiani, che si sono mostrati restii nell’ultimo BTP Italia a loro dedicato, oppure le banche che hanno sempre fatto la loro parte grazie alle operazioni di finanziamento di Francoforte, definite LTRO, che hanno dato liquidità alle banche. Di fatto l’ammontare di titoli di Stato detenuti dagli istituti di credito è passato da 60 mld a 410 per poi scendere a 330 grazie al QE e dover risalire, negli ultimi mesi, a 380 per far fronte alla fuga degli stranieri che ora detengono appena il 30% del nostro debito. Da segnalare che l’ultima operazione di LTRO scade nel 2020 e sarà riproposta a condizioni meno favorevoli. A questo punto gli ottimisti citano la quantità di nostri titoli in pancia alle banche francesi e tedesche pari sempre a 400 mld. Uno spunto che viene letto in due modi: gli ottimisti dicono che per salvare quelle banche non si potrà che aiutare l’Italia ed accettare la manovra, i pessimisti immaginano che i fondi dell’ESM siano usati per aiutare gli istituti stranieri e non per salvare Roma. Vale anche la pena segnalare l’esito di un’operazione di finanziamento di Unicredit che da gennaio ad oggi ha dovuto pagare un tasso cinque volte più alto.

I mercati azionari americani stanno per festeggiare, il prossimo marzo, un decennio di rialzi grazie ad un economia in espansione. Il ritmo di crescita, però è stato inferiore rispetto a quelli di altri cicli rialzisti e questo è uno degli elementi che portano gli operatori a ritenere possibile che il rialzo dei corsi prosegua ancora per più di un anno. Affermazione che viene accompagnata da un monito e da un invito. Monito ad accettare una buona dose di volatilità ed invito ad adottare un portafoglio che abbia delle attività difensive (correlate negativamente con le azioni). Il buono stato di salute dell’economia statunitense è testimoniato, ancora una volta, dal dato sull’occupazione: ad ottobre sono stati creati 250.000 nuovi posti di lavoro.

UBS analizza le valutazioni azionarie evidenziando come siano convenienti rispetto alle medie di lungo periodo.

Morgan Stanley presenta un grafico ad istogrammi in cui riporta l’andamento dello S&P 500 dal 1980 ad oggi evidenziando anche la massima correzione riportata durante l’anno.

In tutti gli anni la correzione massima ha portato ad un temporaneo andamento negativo poi cancellato dall’andamento

definitivo dell’anno. Una situazione che ha buone probabilità di ripetersi quest’anno ed il prossimo grazie ai motivi di possibile nervosismo descritti sopra.

UBS invita ad adottare portafogli con una c omponente di protezione al rischio e presenta questa tabella per dimostrare come, in varie circostanze, una simile strategia abbia, quanto meno, attenuato la volatilità.

Tra gli elementi che possono portare volatilità, ovviamente, c’è anche la crescita europea che ha risentito del recente rallentamento della Germania. Gli ottimisti ritengono che sia temporaneo e da attribuire esclusivamente alle problematiche del settore auto per il varo delle nuove procedure di controllo sulle emissioni inquinanti. Il rischio di un accelerazione monetaria da parte della FED rimane un altro elemento da controllare.

G.G e M.R.

Questo articolo si basa su dati di pubblico dominio ritenuti attendibili, ma suscettibili di modifiche improvvise. Intende soltanto proporsi come ausilio alla comprensione dei movimenti dei mercati finanziari. Non vuole essere in alcun modo uno strumento di analisi o uno studio, né intende sollecitare qualsiasi operazione di compravendita di prodotti finanziari. Si ricorda che ogni risparmiatore deve basare le sue decisioni d’investimento su una propria convinzione. Questo Blog si limita a presentare una sintesi delle opinioni diffuse sui mercati finanziari.

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